Prezzo:
Euro 0.99
Distribuito da: inMondadori,
Smashwords,
Amazon, Apple,
Barnes
& Noble, Kobo.
Un marito e una moglie narcisisti
nutrono l'ambizione di avere un figlio pianista da esibire nei
salotti.
Ausilia Masoero, nata Martorano, è una frustrata casalinga che nutre
grandi ambizioni. Sposata con un odontotecnico, come lei di umili
origini, spinge il marito a prendere delle decisioni al limite della
legalità, e costringe il loro unico figlio, un complessato ragazzino
che a tredici anni bagna ancora il letto, a diventare pianista. Il
ragazzo patisce questa situazione invivibile, che lo schiaccia
privandolo degli spazi vitali necessari alla sua libera espressione.
Le mire narcisistiche della madre ossessiva, che sfrutta il figlio
per realizzare quelle aspirazioni che le potrebbero permettere di
elevarsi nella scala sociale, lo spingeranno a commettere atti di
autolesionismo che porranno fine alla sua carriera di concertista.
Ma alle volte, non tutti i mali vengono per nuocere...
(...) Il pavimento del salottino dei
Masoero era cosparso di teste d’insalata, pomodori di varia
grandezza, cetrioli, carote e peperoni, mele rosse provenienti
dall’Argentina e cocomeri ben maturi. Sembrava una bancarella del
mercato ortofrutticolo. Al centro del salotto dominava una casa da
bambole che era in realtà abitata dal porcellino d’India di
Felicino.
La bestiolina passeggiava indisturbata in mezzo a tutto quel ben di
Dio che le era stato messo a disposizione; il ragazzo,
inginocchiato, stava ricoprendo con del foglio d’alluminio da cucina
le gambe del tavolo e delle sedie. Il padre, in canottiera e calzoni
con le bretelle, si guardava intorno soddisfatto per quella libertà
quasi insperata. La casa era tutta sottosopra, un meraviglioso caos
regnava ovunque!
Lo squillo del telefono fece sobbalzare Felicino spezzando l’incanto
in cui svolazzava leggero come una piuma al vento. Scattò in su e
andò a rispondere.
«Pronto? Sono io…» sentì dire dall’altro capo del filo.
Non appena riconobbe la voce della madre il ragazzino parve
liquefarsi. Lasciò cadere per terra la cornetta e indietreggiò. Il
padre lo guardò sbalordito.
«Ma chi è?» domandò al figlio che era sbiancato.
Felicino gli rispose balbettando con un filo di voce stridula:
«È lei… mamamma!»
Marcello sbuffò alzando gli occhi al soffitto e andò a raccogliere
la fottuta cornetta.
«Pronto?» berciò scocciato.
«Oh, Marcello, sono io, Ausilia!»
«Eh, lo sento. Ma da dove diamine chiami?»
«Sono a casa dei miei, a Moncalieri.»
Al sentir nominare Moncalieri, Marcello fece un gesto vago con la
mano che voleva significare: “E ci risiamo!”.
«Hai dimenticato qualcosa? Se vuoi te l’impacchetto e te lo spedisco
per posta ordinaria… a Nichelino.» le disse, non tanto per essere
servizievole, quanto per punzecchiarla.
«No, non ho dimenticato nulla. Volevo solo… ecco, io volevo sapere
come ve la cavate da soli. Va tutto bene a casa?» e la voce di
Ausilia suonava quasi come un belato, tanto era contraffatta. A
Marcello si attorcigliarono le budella. Si voltò a guardare il
porcellino che passeggiava tranquillo e ignaro fra le verdure e le
mele d’importazione. Felicino, intento ad armeggiare con il rotolo
di foglio d’alluminio, gli lanciò un’occhiata interrogativa temendo
il peggio.
«Qui va tutto alla grande!» rispose.
Nel muovere un passo senza guardare dove posava il piede, schiacciò
un pomodoro.
Gli sfuggì un infelice commento:
«Sbërgnacà!»
Sollevò il piede e guardò sotto la suola della pantofola.
«Che cosa hai detto?» chiese Ausilia che non aveva afferrato bene.
«Ah, niente. Ho solo schiacciato un pomodoro.»
Prese uno strofinaccio dalla spalliera della sedia e si pulì la
scarpa, poi fregò il pavimento là dove aveva spiaccicato il
pomodoro. Operazioni non facili, se eseguite tenendo in mano la
cornetta del telefono.
«Hai schiacciato un pomodoro? Ma come hai fatto?» domandò lei
rivelando col tono della voce la sua vera natura aggressiva di
megera isterica.
«Beh, non l’avevo visto…»
«Ma come diavolo fai a non vedere un pomodoro, perdinci! Mica sei
orbo!»
Lui sbuffò seccato e le fornì la spiegazione che si meritava:
«È stato facilissimo: era sul pavimento e ci ho messo il piede
sopra. Voilà!»
Non appena le parole gli sfuggirono di bocca, però, si morse la
lingua.
«Mi spieghi che cosa ci faceva un pomodoro sul pavimento del nostro
salotto?»
«Era lì… ce l’avevo messo per il maialino.» ammise Marcello.
Oramai la frittata era fatta, tanto valeva servirla.
«Che cosa? Tenete un maiale in casa?»
«Ma no, no… è solo un porcellino d’India!»
«Della Camosso?» domandò indispettita ma anche sperando che fosse
quello della loro vicina arteriosclerotica del secondo piano.
«No, nostro. Cioè… di Felicino.»
Poteva sentirla fremere dall’indignazione, se l’immaginò irrigidire
le spalle, con la fronte corrugata, gli occhi per natura già
ravvicinati e non grandi rimpicciolirsi ulteriormente dalla collera.
«Ma che cosa ti è saltato in mente, di comprargli un porcellino
d’India! Ti pare che Felicino sia così brillante da meritare un
premio?»
«Mica gliel’ho comprato, è arrivato da solo.»
«Sì, da solo… conosce la strada!»
«Volevo dire… glielo ha regalato Chiara.»
«Chiara chi? La Gavotti?» domandò stizzita riferendosi all’altra
vicina, anche del secondo piano, mite e un po’ pazzerella, molto più
giovane ma non più furba della Camosso, per via degli strascichi
lasciatile da una forma acuta di meningite contratta da bambina.
«Sì, proprio lei. Oggi siamo andati a trovarla all’ospedale; è stata
molto male per la sua asma, poveretta! Le abbiamo promesso che
quando starà meglio, l’autunno che viene, la porteremo con noi a
Carrù per la fiera del bue grasso. Ma prima festeggeremo il suo
compleanno in quella trattoria a Rivalba, dove fanno gli agnolotti.
La dimetteranno dopodomani e…»
La sentiva, Marcello, che stava schiumando alla cornetta.
«Ma che cosa sarebbe questa storia del bue grasso e degli agnolotti
di Rivalba! Da quando in qua ci possiamo permettere di sperperare
soldi in feste e viaggi! E poi, mi vuoi spiegare che cosa ci fate
con quella… con quella cretina? Basta che io giri i tacchi e
diventate subito culo e camicia con la Gavotti? Che è così oca, che
ci si potrebbe fare il foie gras! Ma dimmi te, va a regalare
un porcellino d’India a Felicino… non poteva tenerselo?»
Già solo al sentir affibbiare quell’appellativo a Chiara Gavotti, e
per di più da quella stronza di prima grandezza che aveva avuto il
cattivo gusto di prendersi per moglie, a Marcello incominciò a
montare la bile.
«Chiara ha avuto un malore, l’hanno ricoverata d’urgenza. Qui nel
palazzo attendiamo tutti il suo ritorno, e non è affatto una cretina
come dici tu: è una graziosa e simpatica signorina di buona
famiglia. E poi, i soldi li spendo come diamine mi pare, visto che
sono io a portarli a casa. E se ho invitato Chiara a mangiare gli
agnolotti e poi anche alla fiera del bue grasso, ebbene, vuol dire
che si andrà a Rivalba e pure a Carrù!»
Lo schiumare di Ausilia sfumò nel solito e lagnoso piagnucolio
manipolatore cui era solita ricorrere quando aveva già sparato a
vuoto tutte le sue cartucce. Era un trucchetto da balorda che aveva
appreso sin da piccolissima, per concentrare su di sé le attenzioni
dei genitori a scapito degli altri figli, e ottenere sempre da loro
tutto quello che voleva, benché i mezzi della famiglia fossero molto
limitati. Bastava appena versare qualche lacrimuccia, meglio ancora
se accompagnata da un vago tremolio del mento, e in men che non si
dica gli altri bambini venivano privati dei pochi balocchi vinti ai
baracconi della festa dell’Unità, o dei doni ricevuti dai padrini e
dalle madrine in occasione di sacramenti, feste e ricorrenze, se
solo Ausilietta si faceva prendere dal ghiribizzo di
desiderarli e avanzare pretese. Aveva funzionato la prima volta,
quando si era ammalata di morbillo, funzionò pure tutte le altre. Si
era guadagnata il ruolo di protagonista assoluta pur senza averne i
requisiti.
«Non posso crederci, fino a Carrù! E poi, quella sua stupida cavia
che ci passeggia per casa… chissà che disastri… che porcile sarà!»
frignava col doppio mento che ballonzolava sul colletto della
camicetta ricamata a macchina da operaie cinesi sfruttate nelle
sartorie clandestine in Toscana.
«Tranquilla, viene la portinaia, madama Gilardi, a farci le pulizie.
E poi, il maialino ha solo rosicchiato i tacchi delle tue scarpe
della domenica. Felicino sta ricoprendo tutte le gambe dei mobili
con il foglio d’alluminio…» minimizzò Marcello, ma non gli fu
permesso di concludere.
«Che cosa? Le mie scarpe nuove? Buttate subito fuori di casa nostra
quella maledetta bestiaccia!» berciò lei dimenticandosi per un
attimo di frignare e di belare.
Ma quella volta Marcello, invece di scusarsi, la rimproverò, povera
Ausilietta, e la cosa la spiazzò:
«Se tu non le avessi lasciate in giro, le tue belle scarpe da festa,
lei non ci si sarebbe fatta i denti sopra. A proposito, è una
femmina e si chiama Libertà. E poi, non sei tu che vuoi sempre tutto
in ordine? Chi è artefice del proprio male, pianga se stesso.»
Piagnucolò per le sue scarpe della domenica, Ausilia. Oramai era
lanciata nel suo monologo di autocommiserazione; lui, invece,
l’accompagnava facendo il gesto di girare la manovella di una
vecchia pianola. (...)